La Corte dei conti fa chiarezza sulla responsabilità da mancato riversamento dei compensi percepiti dal dipendente pubblico per incarichi esterni non autorizzati

29/05/2025

Il 22 gennaio scorso le Sezioni riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale hanno depositato la sentenza n. 1/2025/QM/PROC, con la quale si è fatta chiarezza in ordine all’interpretazione dell’art. 53, commi 7 e 7-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (cd. TU del pubblico impiego).

La disposizione vieta ai dipendenti pubblici di «svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza», subordinando detta autorizzazione alla verifica dell’«insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi». In caso di inosservanza, «salve le più gravi sanzioni» eventualmente previste dall’ordinamento e «ferma restando la responsabilità disciplinare», il dipendente è tenuto a riversare il compenso eventualmente percepito all’Amministrazione medesima (comma 7), per non incorrere in responsabilità erariale (comma 7-bis).

Nel caso di specie, un professore universitario in regime di tempo pieno era stato condannato in primo grado per non aver corrisposto all’Ateneo di appartenenza i compensi percepiti per il contemporaneo svolgimento di alcuni incarichi libero-professionali, non precedentemente autorizzati nonché coperti da incompatibilità assoluta ex art. 53, comma 1, d.lgs. n. 165/2001. Senonché, con riferimento all’applicabilità del settimo comma, la Prima Sezione giurisdizionale di appello aveva rilevato l’esistenza di due orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento, cui aderiscono nel giudizio in esame sia la Procura regionale che il Procuratore generale, la suddetta disciplina avrebbe carattere generale, cioè troverebbe applicazione sia alle fattispecie connotate da incompatibilità assoluta, sia ai casi di incompatibilità relativa, in cui il dipendente abbia agito in difetto di un’autorizzazione che, tuttavia, in astratto avrebbe potuto essergli concessa. Tale lettura si porrebbe in continuità con la sentenza n. 26/2019/QM/PROC delle medesime Sezioni riunite, la quale ha affermato la ratio risarcitoria (anziché sanzionatoria) dell’ipotesi di responsabilità erariale prevista dal comma 7-bis. Per tal via, dovrebbe concludersi che l’entità del danno ristorabile sia stata predeterminata dal legislatore, venendo a coincidere col compenso indebitamente percepito dal dipendente nel periodo in cui abbia cumulato incarichi istituzionali ed extraistituzionali.

Altra parte della giurisprudenza, seppur minoritaria, intende l’art. 53, comma 7 nel senso che esso troverebbe applicazione solo alle ipotesi di incompatibilità relativa, essendo quelle di incompatibilità assoluta già autonomamente sanzionate con la destituzione dall’impiego ex art. 63 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3. In questi casi, il danno sofferto dall’Amministrazione sarebbe da valutarsi «in via equitativa», sulla base degli ordinari principi civilistici in tema di inadempimento contrattuale.

Le Sezioni riunite giudicano corretta questa seconda tesi, insistendo proprio sull’intrinseca differenza tra i due tipi di incompatibilità. L’incompatibilità relativa, osserva infatti il Collegio, può dar luogo a violazione di meri «obblighi» di condotta e patrimoniali (rispettivamente, di informazione e di riversamento dell’aliunde perceptum); obblighi che, seppur di fonte legislativa, restano funzionalmente interni al rapporto contrattuale. Viceversa, l’incompatibilità assoluta comporta la trasgressione di un più radicale «dovere» di esclusività (§ 5, VI e VII cpv. cons. dir.).

I Giudici osservano che tale dicotomia trova conferma anche sul piano probatorio. Per le ipotesi di attività extraistituzionali autorizzabili ma non autorizzate, o comunque svolte in maniera infedele, vi è esigenza che il danno sofferto dall’Amministrazione sia interamente dimostrato. Esso, invero, potrebbe non sussistere affatto o coincidere con l’intero compenso indebitamente percepito dal dipendente per l’assolvimento di mansioni che, proprio per la concorrenza dei carichi di lavoro extraistituzionali, non siano state da lui svolte neppure in misura minima; potrebbe parametrarsi alla quantità e alla qualità della prestazione lavorativa, se parziale, e comprendere l’eventuale indennità di esclusiva; ovvero, ancora, potrebbe computarsi sulla base del «differenziale retributivo» tra lavoratori a tempo pieno e a tempo definito, quantomeno in quei settori, come quello accademico, in cui tale distinzione sia normativamente prevista (§ 5, XVII e XVIII cpv. cons. dir.).

Nei casi di incompatibilità assoluta, invece, il diritto dell’Amministrazione a recuperare per intero la retribuzione erogata scaturisce automaticamente dall’avvenuta violazione di una norma imperativa, ferma restando tuttalpiù la facoltà, per l’Amministrazione, di dimostrare la maggior lesione eventualmente subita, anche sulla base di «indici presuntivi» che siano «gravi, precisi e concordanti» (§ 5, XIX cpv. cons. dir.).

Ignazio Spadaro

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